Erba amara (Tanacetum parthenium). Foto di Andrea Mangoni.
Come scrivevo in un altro post, la balsamita non è l'unica pianta a fregiarsi del nome di "erba amara". Ce n'è infatti un'altra, l'erba amara propriamente detta o partenio (Tanacetum parthenium).
Il partenio, noto anche come madrigale, è una piccola pianta della famiglia delle Asteraceae, originaria del Caucaso ma diffusa oramai nei giardini e negli orti di molti Paesi europei, Italia compresa. Raggiunge un'altezza di circa 60-70 cm, ha foglie finemente laciniate che ricordano quelle della ruta o del prezzemolo, e produce fiorellini simili a piccole margherite; in commercio si trova anche una cultivar in cui il centro dell'infiorescenza è bianco e ben rilevato, nota come "snowball" (vedi la foto sopra). Ampiamente utilizzata in erboristeria, con effetto emmenagogo, contro la febbre, i dolori articolari e la dismenorrea, per la maggior parte dei comuni mortali trova la propria consacrazione in cucina.
Erba amara (Tanacetum parthenium). Foto di Andrea Mangoni.Io l'ho scoperta per caso, nel giardino di mia suocera, dove cresceva nei vasi e si autoseminava a profusione in ogni intersitizio della pavimentazione. Del resto mia moglie viene dal mantovano, e più specificatamente da quei territori compresi tra Sommacampagna nel veronese e Mantova, dove tanto è diffuso l'utilizzo culinario di questa essenza. Essa è impiegata principalmente come ingrediente per saporite frittate e per il ripieno dei tortelli, proprio come la balsamita; a differenza di questa, però, essa manca del tutto dell'aroma di menta, mentre è molto più accentuato il gusto amaro; è proprio lei, a tutti gli effetti, la vera erba amara! Ne bastano infatti poche foglie per riempire di gusto una generosa frittata per 4 persone, magari già di per sè insaporita con un buon soffritto di cipolla di Tropea.
Una grossa differenza con la balsamita sembra essere anche la modalità di propagazione. In questo caso infatti la via più semplice è quella di moltiplicare la pianta per talea erbacea in estate, staccando i getti laterali, privandoli delle foglie basali ed interrandoli parzialmente in vasi riempiti con terriccio da giardino mantenuto sempre umido. In capo ad una settimana le talee inizieranno a radicare. Una curiosità: in teoria il tanaceto è una pianta perenne ma le mie piante, al secondo o terzo anno di vita, dopo la fioritura iniziavano a seccare completamente, a partire dalle cime fiorite. Ebbene, se le talee erbacee estive erano state fatte con rametti del secondo - terzo anno che portavano boccioli, fiorivano anch'esse e anch'esse alla fine seccavano proprio come se fossero state ancora attaccate alla pianta madre; le talee ottenute invece da rametti laterali privi di boccioli sopravvivono senza problema alcuno. Nella foto in basso è possibile vedere due vasi di talee, uno dei quali, a destra, mostra proprio delle pianticelle seccatesi dopo la fioritura. Il partenio però si autosemina vigorosamente, riempiendo di giovani piantine il proprio vaso e quelli adiacenti. La crescita in questo caso è però più lenta, e bisogna attendere alemno un anno prima di poter iniziare a utilizzare la pianticella in cucina.
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Erba amara (Tanacetum parthenium). Foto di Andrea Mangoni.
L'isola di pontikonissi. Foto di Andrea Mangoni.
A sinistra di questa piccola baia, a circa cinquecento metri dalla spiaggia, c'era un'isola, Pondikonissi, ovvero l'"Isola dei topi". Come forma ricordava un triangolo isoscele, ed era fittamente coperta di antichi cipressi e cespugli di oleandro che si affacciavano su una chiesetta bianca come la neve e la sua minuscola canonica. Sull'isola abitava un vecchio monaco, un tipo piuttosto sgradevole, che portava una lunga tonaca nera e un cappello a cilindro, la cui funzione principale pareva quella di suonare di tanto in tanto la campana della chiesetta e la sera andarsene remando lentamente fino al vicino promontorio, dove sorgeva un piccolo monastero abitato da tre anziane suore. [...] Poi al tramonto, quando il sole calando trasformava le calme acque attorno all'isoletta in un lenzuolo multicolore di seta cangiante, remava tornando a casa, come un corvo nero e ingobbito dentro quella sua barcaccia scricchiolante e sconnessa.
Gerald Durrell, L'Isola degli Animali, Guanda (1995)
Cespugli di mirto a Pontikonissi. Foto di Andrea Mangoni.
Arrivando a Corfù con l'aereo, nel settembre del 2008, la prima cosa che vidi e che riuscii ad identificare fu proprio Pontikonissi (o Pondikonissi), che scura dominava la piccola baia vicina all'aereoporto, resa rossa e violetta dal tramonto. Nei giorni successivi, percorrendo più e più volte la strada lungo la costa, continuammo a vederla e a considerarla un piccolo punto di riferimento: di fronte a lei, sulle colline, si trovava il villaggio di Kanoni; proseguendo un poco, verso nord, si arrivava alla periferia di Corfù Town. Un giorno, finalmente, decidemmo di fermarci un attimo e di prenderci un pomeriggio per farvi una capatina. Lasciata l'auto presso il parcheggio di un bar, scendemmo il sentiero che dalla strada portava alla baia. Qui, un servizio di traghetto con piccole e pittoresche barchette trasportava i turisti sull'isola, all'esorbitante prezzo (;-)!) di 2 € a testa (andata e ritorno). Il mare attorno all'isola era uno specchio, con acqua bassissima e cristallina, ricco di ogni forma di vita marina; nella calura del pomeriggio, era un vero peccato non potercisi immergere!
Ritratto del Cristo con gli ex voto. Foto di Andrea Mangoni.
L'isola era piccola, avviluppata da una selva di mirto, oleandri, cipressi e pini d'Aleppo; sul lato nord-ovest, dove il mirto diradava, il finocchio marino invadeva gli scogli e le rare lucertole si sdraiavano sonnacchiose in attesa della prossima preda. Le scale bianche, accecanti nel sole pomeridiano, portavano alla cima del minuscolo colle dove sorge il monastero. E' ancora lì, intatto e bellissimo; pareva di dover vedere da un momento all'altro il bellicoso monaco ortodosso uscire a gridare qualche epiteto corfiota ai turisti. Ma nulla, niente monaci, niente sacerdoti; solo gli ex voto appesi di fronte al ritratto del Cristo fanno capire che la chiesetta occupa ancora un posto ben saldo nella spiritualità degli abitanti di Corfù.
Trascorremmo un'ora meravigliosa tra il verde che circondava il monastero, il muretto che cingeva l'isola e su cui si poteva prendere il sole, la fresca oscurità dell'interno della chiesetta, il mare limpido e sfavillante di riflessi. Riprendere la barca per tornare indietro fu davvero poco invitante. Per noi rimarrà invece sempre un mistero il significato del suo nome: non vedemmo un topo nemmeno a pagarlo!

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La scalinata del monastero di Pontikonissi. Foto di Andrea Mangoni.
Il monastero di Pontikonissi nascosto dagli alberi. Foto di Andrea Mangoni.
Il monastero di Pontikonissi. Foto di Andrea Mangoni.
Il monastero di Pontikonissi. Foto di Andrea Mangoni.
Il monastero di Pontikonissi. Foto di Andrea Mangoni.

L'interno del monastero di Pontikonissi. Foto di Andrea Mangoni.
Balsamita (Balsamita major) in fiore. Foto di Andrea Mangoni.
Anni fa - lo ricordo come ora - Bruno Rossetto mi chiamò da parte, un pomeriggio che ero andato a trovarlo per le Polverara, e mi diede in mano una grossa foglia che sembrava quasi un qualche tipo di salvia.
- Prendi qua, prova a sentire: dimmi cos'è, secondo te?
- Ehm... un qualche tipo di menta? Il profumo sembra quello delle gomme da masticare di una volta...
- Sì, bravo, è proprio una menta. E sai quanto è vecchia? Ha quasi duecento anni...
Cominciò così la mia conoscenza con la balsamita (Balsamita major), o meglio, con la balsamita bicentenaria di Bruno. La storia della pianticella era affascinante: sua zia Virginia gli aveva dato "la razza" di quella piantina cinquant'anni prima, e a sua volta lei l'aveva ricevuta dalla propria madre, in un rincorrersi di generazioni che andava indietro nel tempo di quasi duecent'anni. E per tutto quel lasso di tempo, la pianticella di balsamita che avevo sotto gli occhi era stata moltiplicata anno dopo anno per divisione dei cespi, coltivata sotto i salici delle rive di Selve di Teolo e nei giardini di Mortise. Due secoli di storia condensati in una piantina alta pochi decimetri.
Balsamita (Balsamita major). Foto di Andrea Mangoni.In realtà, la balsamità della menta ha solo l'odore. Già al gusto sotto l'aroma principale si scopre un sapore amaro forte e pungente; ed i suoi vecchi nomi scientifici, Tanacetum balsamita e Chrysanthemum balsamita, la dicono lunga sulle sua vere parentele. Essa infatti appartiene alla stessa famiglia del crisantemo e di altre piante aromatiche, la famiglia cioè delle Asteraceae, ben diversa da quella delle Lamiaceae cui appartiene la vera menta. Nota con molti nomi, è detta tra l'altro erba amara ed erba di San Pietro. Originaria forse dell'Asia minore, era già nota ad Egizi, Greci e Romani per le sue proprietà medicinali.
La balsamita è una pianta rizomatosa, che emette fusti eretti e sottili alti fino a 120 cm, che si diramano nello spazio al momento della fioritura, in tarda estate, quando le infiorescenze formano una sorta di prezioso candelabro postmoderno terminante in minuscoli fiorellini giallo oro, un tempo usati come segnalibro dagli uomini di Chiesa (da qui l'altro nome comune con cui è conosciuto, erba della Bibbia). E' nota per avere molteplici proprietà terapeutiche: antispasmodiche, sedative, diuretiche, emmenanoghe, carminative, colagoghe, lassative, antiossidanti ed antinfiammatorie. Ma è soprattutto usata in cucina, nella preparazione di frittate, salse, ripieni e per aromatizzare cacciagione e selvaggina arrosto, cui conferisce un caratteristico aroma di menta con retrogusto amaro. Così caratteristico da farne il principale ingrediente del tipico Tortello Amaro di Castel Goffredo, cittadina del mantovano caratterizzata dalla produzione proprio di questo peculiare tipo di primo, cui dedica una fiera. C'è da dire che nei territori compresi tra Mantova e Sommacampagna alla balsamita si unisce in cucina un'altra pianticella della stessa famiglia, l'Erba Amara o Tanacetum parthenium, molto coltivata a livello famigliare e di cui mi riservo di parlare più diffusamente in un prossimo post.
Comunque sia, tornando a noi: provai a moltiplicare per talea la balsamita di Bruno, ma senza il minimo successo. Nel frattempo però la cara Equipaje mi inviò un paio di pianticelle delle sue, così potei iniziare ad utilizzarla anch'io in cucina. Scoprendo, peraltro, che va usata con estrema parsimonia: il suo aroma è davvero molto forte! La pianta apprezza una posizione luminosa, ma se tenuta in vaso meglio evitare un'esposizione a sud. Cresce bene in quasi tutti i tipi di terreno, e sopporta anche quelli sassosi e abbastanza aridi. In vaso meglio mantenere invece il terreno leggermente umido. Se la piantate in piena terra, attenti a chiocciole e limacce! Pare ne vadano ghiotte. D'inverno, ponetela in posizione perlomeno un po' riparata, o proteggetela nei periodi più freddi con un po' di tessuto non tessuto. E per riprodurla? Niente talee o moltiplicazione per seme: in genere non ce la si fa. Questa pianta è dotata di un rizoma stolonifero, e va quindi sfruttata questa sua peculiarità: si possono staccare e rinvasare pezzi di rizoma che abbiano almeno una o due gemme vegetanti, a patto di prelevare con essi anche parte della zolla di terreno originaria. Si possono anche al limite piegare i getti giovani fino a far loro toccare il terreno, bloccandoli con una forcellina ad "U" per favorire l'emissione di qualche radice. In ogni caso, l'importante è il risultato... e nella fattispecie, l'importante è stato riuscire a ricevere una pianticella moltiplicata per divisione del rizoma da Bruno. Così ora anch'io, in terrazzo, posso ospitare la balsamita bicentenaria.
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Foglie di balsamita (Balsamita major). Foto di Andrea Mangoni.
Gallo di Boffa al pascolo. Foto di Andrea Mangoni.
Leggo una notizia che mi lascia francamente sconcertato, se non totalmente allibito.
Nell'annoso dibattito centrato su quale gallina faccia le uova migliori, se quelle allevate all'aperto o quelle allevate in gabbia, scende in campo l'UNA, nella persona del suo Presidente Aldo Muraro, per informarci doviziosamente che non risultano studi scientifici che affermino che le uova di galline allevate all'aperto e quelle allevate in gabbia, a parità di alimentazione, abbiano contenuti nutrizionali od organolettici differenti. Non ci credete? QUI l'ARTICOLO ORIGINALE.
Straordinario, vero? Immagino la levata di scudi da parte di chi non è d'accordo, ma stavolta devo proprio dirlo: l'UNA ha assolutamente ragione. E' infatti totalmente logico e sensato, che se due animali della stessa specie si nutrono esattamente degli stessi alimenti i loro prodotti siano per lo meno comparabili.
Peccato però che l'UNA si sia dimenticata di sottolineare una cosa molto più importante, e cioe che
GALLINE IN GABBIA E GALLINE ALL'APERTO NON MANGIANO LE STESSE COSE, E LA LORO ALIMENTAZIONE NON E' MAI PERCIO' IDENTICA!
Il Presidente Muraro si è infatti dimenticato di ricordare al pubblico che l'alimentazione di una gallina allevata con metodo biologico (10 metri quadri di pascolo alberato per capo) o all'aperto (2,5metri quadri di pascolo alberato per capo) non è mai paragonabile a quella di un'animale allevato in gabbia. Infatti, anche se venisse somministrato ad una gallina "libera" lo stesso identico mangime di una consorella "segregata", essa integrerebbe la propria dieta con tutta la gamma di erbe selvatiche disponibili nel suo pascolo, oltre che con le miriadi di invertebrati e piccoli vertebrati che scoverebbe razzolando. Carotenoidi, olii essenziali, proteine, mille variabili che influenzerebbero il valori nutrizionali e le qualità organolettiche di un uovo. Non è nemmeno pensabile di fare un paragone quindi tra le due tipologie di allevamento, anche perchè non solo è difficilmente quantificabile la qualità e quantità di nutrienti assunti da una gallina al pascolo nel corso dell'anno, ma questi cambiano col variare delle stagioni, con la differente disponibilità di insetti ed invertebrati, con il variare stesso delle specie di piante che possono comporre il prato ove razzolano gli animali.
Inoltre, uno studio dell'Università della Pennsylvania ha dimostrato che le uova di galline da allevamento biologico sono estremamente più ricche in vitamina E, vitamina A ed acidi grassi Omega 3. Certo, in questo caso le galline all'aperto "giocano sporco" perchè possono avere una dieta eccezionalmente varia e naturale...
Insomma, in attesa di altre notizie, più interessanti della gentile concessione sul fatto che una gallina all'aperto viva meglio di una in gabbia, o sull'interessante osservazione che un uovo di gallina all'aperto viene a costare di più, io continuerò ad allevare le mie Boffe e Polverara sotto il vigneto e nel frutteto, e a godermi le loro uova, per l'UNA forse indistinguibili da quelle di una gallina in batteria ma per il mio palato (e quello dei miei ospiti) invece decisamente differenti.
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AVICOLTURA E BIODIVERSITA': LETTURE PER SAPERNE DI PIU'

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Gruppo di Gallina Boffa al pascolo che razzola. Ssshhhhttt!! Non fate sapere all'UMA che mangiate cose diverse dalle vostre sorelle in gabbia!! Foto di Andrea Mangoni.
Horti venetiani, Villa Pisani, Stra (VE), 11 e 12 settembre 2010. Foto di Andrea Mangoni.

Già in passato ho avuto modo di parlare, seppur brevemente, di Villa Pisani. Oggi torno ad accennarvene in occasione della prima edizione di Horti Venetiani, una due giorni che si svolge oggi 11 e domani 12 settembre 2010. Nella meravigliosa cornice di questo straordinario giardino si danno appuntamento vivaisti ed amatori in una kermesse di piante rare, arredi da giardino, fiori tropicali ed insoliti, frutta antica, bulbose, piante aromatiche e palustri. Molti i vivaisti noti al grande pubblico: Paolo Borgioli con le sue ortensie, Susigarden con una ricca selezione di piante da fiore più o meno insolite, e tanti altri volti noti della scena florovivaistica italiana. La cornice eccezionale rende l'evento ancora più godibile per l'appassionato. Il biglietto d'ingresso costa 6 €, ma c'è la possibilità con un prezzo maggiorato divisitare l'intero parco di Villa Pisani ed anche di avere una guida a propria disposizione.

Noi siamo tornati a casa ognuno con un ricordo particolare: mia moglie Roberta con una bella peonia erbacea bianca, mia cognata Claudia con una pianta di lamponi davvero notevole ed io... Io ho portato a casa con me il piacere di incontrare finalmente di persona Mimma Pallavicini, persona assolutamente squisita e disponibile, che già avevo avuto modo di conoscere via internet e di sentire telefonicamente. Un grazie ancora grandissimo a Mimma per i suggerimenti ed i consigli ricevuti da lei nelle ultime settimane, incontrarti è stato un piacere ed un onore. Un abbraccio e a presto!

Io vi lascio con qualche scatto rubato in mostra, e l'invito a non farvi scappare l'occasione di andare a visitare domani (o per chi può, anche oggi, fino al tramonto) questa bella manifestazione.

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MAGGIORI INFORMAZIONI SU HORTI VENETIANI CLICCANDO QUI

Alcuni espositori. Foto di Andrea Mangoni.Una magnifica rosa screziata. Foto di Andrea mangoni.Alcuni espositori. Foto di Andrea Mangoni.Un'orchidea tropicale, Laeliocattleya Elisabeth Fulton 'Michel'. Foto di Andrea Mangoni.Arredi davvero straordinari per il giardino e non solo. Foto di Andrea Mangoni.Nimphaea 'Daniel'. Foto di Andrea Mangoni.Un dettaglio delle mura interne di Villa pisani. Foto di Andrea Mangoni.Un'orchidea tropicale. Foto di Andrea Mangoni.
Una donna camponogarese nutre polli, oche e anatre. Foto tratta dal libro Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria. Racconti e immagini di Camponogara
Il paese in cui vivo, Camponogara, non ha avuto, in passato, razze ben precise o altre forme di allevamento note e “codificate”. Insomma, nulla che faccia sospettare la presenza di animali molto differenti da quelli che potevano essere trovati nel resto della provincia.
Gallo bianco autoctono. Foto di Andrea MangoniE' possibile però ottenere qualche informazione in più dall'esame di alcune fotografie storiche di vita rurale scattate nel corso del XX secolo. Già avevo mostrato in passato la foto dei miei nonni; in essa si vedeva la sagoma di un paio di galline bianche. A quell'immagine oggi ve ne accosto altre due, ricavate da un bel libro scritto da Rocco Luciano: Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria. Racconti e immagini di Camponogara. Le fotografie mostrano due donne di Camponogara intente a nutrire i propri avicoli; dall'analisi di esse, e dalla memoria storica di alcuni anziani camponogaresi con cui ho avuto la fortuna di parlare, mi è stato possibile raccogliere delle informazioni riguardo alle razze avicole allevate nel comprensorio del nostro Comune. Iniziamo dunque a vedere cosa offriva, il secolo scorso, questo territorio.
  • Le oche: la razza probabilmente più diffusa era la Pezzata Veneta, a volte forse incrociata con la Padovana.
  • Le faraone non erano troppo diffuse; gli animali allevati in genere appartenevano alla colorazione comune.
  • Anatra muta di Barberia autoctona. Foto di Andrea Mangoni.Le anatre: erano diffuse in allevamento soprattutto due tipi di anatra. La prima era l'anatra muta o di Barberia, che specie nella colorazione pezzata riscuoteva sempre un grosso successo, grazie alle sue eccellenti doti di produzione di carne e uova. Ad esse erano di solito accostati i germani reali ed alcuni loro ibridi, estremamente apprezzati (nonostante la piccola mole) per la bontà delle carni. In particolar modo si potevano trovare tra i maschi molti esemplari quasi neri; le femmine invece mantenevano la colorazione ancestrale. Sono ancora presenti sul territorio ceppi di anatra muta autoctona, con magnifiche caruncole lisce e nere.
  • I tacchini appartenevano di norma a ceppi molto leggeri, paragonabili per taglia e caratteristiche ai tacchini bronzati dei colli euganei. In qualche casa di contadini è ancora possibile reperire capi di colorazione grigio-rossastra, sempre di taglia medio piccola, di origine incerta. Le tacchine erano, come in tante altre parti d'Italia, ampiamente utilizzate per la cova delle uova di gallina.
  • Un gallo bianco di ceppo autoctono. Notare la coda ben rilevata. Foto di Andrea Mangoni.Venendo ai polli, erano diffuse diverse tipologie di animali. Erano ovviamente presenti polli autoctoni di tipo mediterraneo, a tarsi gialli, cresta semplice (ripiegata nelle femmine) e orecchioni bianchi. Si mostravano alti sui tarsi e con code piuttosto rilevate, molto diversi dall'Italiana Comune Locale tanto propagandata al giorno d'oggi! Erano diffuse numerose colorazioni: bianca, frumento o collo oro, millefiori. Molto apprezzate erano le galline appartenenti alla razza Cuccola, già citata da Mazzon, chiamate qui cenere o capparola e caratterizzate dalla bella colorazione sparviero. Erano inoltre diffusi diversi capi nani, comunemente noti come chichinei e caratterizzati oltre che dalle piccole dimensioni da un'elevata selvaticità ed indipendenza, e da un'ottima attitudine alla cova. Questo le accumunava certamente ad un altra tipologia di gallina, la pepoleta, gallina nana già descritta da Mazzon e utilizzata principalmente come chioccia, spesso dopo averla fatta ubriacare con pane e vino qualora fosse risultata recalcitrante.
Tacchino grigio-rossastro di selezione locale. Foto di Andrea MangoniDi questo mondo rurale, cosa rimane oggi? Ben poco, purtroppo. Ora come ora, le persone che allevano ancora il pollame per uso famigliare sono davvero poche, e quasi tutti hanno in pollaio le medesime tipologie di animali: incroci commerciali a duplice attitudine, ovaiole rosse, qualche tacchino bronzato di taglia grande, al massimo alcune faraone o anatre mute. Esistono ancora però delle famiglie che continuano ad allevare animali appartenenti a ceppi più antichi; in questo caso è ancora possibile vedere emergere le caratteristiche delle vecchie razze autoctone, anche se spesso mascherate o confuse dai continui, inevitabili incroci. Ma purtroppo anche questi animali stanno piano piano svanendo; e quando anche l'ultimo di loro sarà morto, i nostri pollai saranno certamente molto più poveri.
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Una donna nutre polli e tacchini. Foto tratta dal libro Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria. Racconti e immagini di Camponogara
Bibliografia
Mazzon, I. (1932). Pollicoltura Padovana. Soc. Coop. Tipografica, Padova.
Mazzon, I. (1934). Pollicoltura Padovana. Storia monografia delle razze padovane. Tip. Antoniana, Padova.
Rocco, L. (2009). Vie di terra, d'acqua, di ferro e d'aria. Racconti e immagini di Camponogara. Coop. Il Plaustro, Prozzolo.
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LETTURE INTERESSANTI

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www.pomonaitaliana.it
Negli ultimi tempi sempre più si fa sentire l'esigenza di recuperare l'antica biodiversità agronomica del nostro Paese, sempre più a rischio di erosione genetica. Per chi si appresta però a lavorare con antiche varietà di frutta e verdura, un problema notevole può essere costituito dal recuperare il materiale bibliografico indispensabile per partire con una ricerca anche iconografica delle varietà di nostro interesse.
Segnalo così più che volentieri il bellissimo sito dedicato agli scritti (davvero unici) di Giorgio Gallesio, la Pomona Italiana ossia trattato degli alberi fruttiferi, opera edita tra il 1817 ed il 1819 in cui venivano descritte ed analizzate decine di varietà antiche di alberi da frutto e dei loro prodotti. Oggi praticamente introvabile in forma cartacea, ne è stata curata da Massimo Angelini e Maria Chiara Basadonne una versione telematica di libera fruizione. Un preziosissimo aiuto, insomma, per tutti coloro che deiserano iniziare a scoprire il mondo delle antiche varietà di frutta del nostro Paese.
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La Papaccella. Foto di Andrea Mangoni.
Recentemente, in una visita presso l'orto di Elio, un mio anziano "vicino di campo", sua moglie Silvana mi ha mostrato delle piante di piccoli peperoni (Capsicum annuum) dalla forma appiattita, peperoni di cui lei stessa portò i semi qui a Camponogara dalla sua città d'origine, Frosinone. E' una varietà che lei chiama semplicemente Peperone Piatto, ma che credo corrisponda abbastanza alla rinomata Papaccella campana. Di questi peperoni ne esistono numerose varietà locali, diffuse soprattutto nel meridione, tra cui la bellissima Papaccella Riccia.
La Papaccella di Silvana è un magnifico peperone appiattito, squadrato e leggermente costoluto, del diametro di circa 8,5-9 cm, alto circa 5 cm e del peso più o meno di 120 gr. La polpa è carnosa, ricca e dolce. Viene raccolto quando maturo ed utilizzato per una preparazione piuttosto classica, quella del peperone ripieno da fare al forno. Lei lo prepara soprattutto con carne macinata, formaggio, pan grattato ed aromi. Io vorrei però provare un'altra ricetta leggermente modificata, di cui accennerò a fine post.
Ma perchè, nel titolo del post, ho specificato "di Silvana"? Non perchè lei si arroghi il vanto di aver selezionato tale varietà, ma perchè è a mio avviso interessante il fatto che dopo tanti lustri di coltivazione in Veneto, le piante da lei tenute sono decisamente quelle che hanno dimostrato di adattarsi meglio alle condizioni climatiche delle estati della nostra regione. Non proprio un ecotipo, forse, ma di certo un "ceppo" di peperoni oramai perfettamente integrato nel contesto della mia regione. Per questo cercherò di serbarne con cura i semi per l'anno prossimo, per poterli coltivare anch'io nel mio orto.
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PEPERONE RIPIENO AGLI AROMI
Ingredienti: 2 peperoni, 150 gr. di pane in cassetta, un uovo, 1/2 bicchiere di latte, grana grattugiato, pane grattugiato, uno spicchio d'aglio, mezza cipolla di tropea, 4 pomodorini secchi sott'olio, menta, basilico, capperi, origano, timo, rosmarino.
Preparazione: lavate e asciugate le erbe aromatiche fresche, unitele alle altre, ai capperi, alla cipolla e all'aglio, e frullateli col minipimer. A parte mettete a mollo nel latte il pane in cassetta, tagliate a pezzetti piccoli i pomodorini secchi ed unite entrambi questi ingredienti con gli aromi tritati. Amalgamate aggiungendo l'uovo ed il grana e, se la consistenza dovesse essere troppo acquosa, aggiungete del pan grattato. Prendete quindi i peperoni, tagliatene la parte superiore in modo da ottenere una sorta di coperchio, svuotateli dei semi ed ungeteli leggermente di olio d'oliva dentro e fuori. Riempiteli col composto e chiudete col coperchietto ottenuto dalla parte superiore col picciolo. Mettete i peperoni ripieni in forno a 180 gradi per una ventina di minuti, quindi tirateli fuori e serviteli caldi. Buon Appetito!
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La Papaccella ancora parzialmente verde, prima di esser colta. Foto di Andrea Mangoni.