Stalattiti di ghiaccio sul tetto del vicino.

Qualche giorno fa, sul tetto di fronte a casa mia, c'erano splendide stalattiti di ghiaccio come da tempo non ne vedevo. Ricordo che da bambino le chiamavamo "i piro£i", e li staccavamo per poterli smangiucchiare (quando puliti!). 

Mi sarebbe piaciuto che in queste feste, se non proprio la neve, ci fosse un po' più di freddo e un po' meno umidità. Ma niente: pioggia e scirocco, e con loro l'acqua alta. Per la maggior parte dell'Italia l'acqua alta è un problema relativo, per me che sono qui a Venezia a lavorare, invece, un po' meno. 


Ma in questa giornata di vigilia non sono solo, qui, sulla mia isola: un gheppio (Falco tinnunculus) si è messo a cacciare davanti alla mia finestra, agile e bellissimo, e ogni tanto piomba sulle siepi di bosso del giardino all'italiana per predare qualche insetto o qualche lucertola che abbia incautamente osato metter furoi il muso nonostante la pioggia. tra parentesi, le lucertole dell'isola di San Giorgio sono un po' sfortunate: in autunno TUTTE, inesorabilmente, si ammalano di una strana forma di papilloma cutaneo. Vabbè, al gheppio non importa. 

Lungo il muro, poi, c'era un minuscolo scorpione (Euscorpius italicus) intirizzito. Non appena l'ho preso in mano si è rianimato ed ha sollevato minaccioso la sua coda: un minuscolo carroarmato a otto zampe sporco di gesso. L'ho lasciato vicino ad un anfratto del muretto, perchè possa tornare a svernare in pace. 

Comunque. Quest'anno è stato bello, importante e ricco più che mai. A parte l'arrivo di mio figlio Pietro, gioia della mia vita (e di quella di mia moglie Roberta), ci sono stati il cambio di lavoro, l'inizio del progetto di recupero delle Boffe, il corso di Botanica, il Carnevale della Biodiversità... e poi ancora la collaborazione con Mario Venturi per il progetto "Gigante Padovana" ed un nuovissimo impegno, sempre in campo avicolo, col "Progetto Emiliane", al cui blog per ora vi rimando per maggiori informazioni (ma l'anno prossimo ne riparleremo anche qui). 

Insomma, un anno pieno di VITA e bellezza. E proprio per questo auguro a tutti voi, di cuore, un Natale ricco di altrettanta VITA ed uno spettacolare inizio d'anno.

BUON NATALE E AUGURI DI BUONE FESTE A VOI E A TUTTI I VOSTRI CARI!


Il giovane esemplare di Euscorpius italicus trovato oggi al lavoro. . Foto di Michele Ballarin.
Epipactis atrorubens. Foto di Andrea Mangoni.
Epipactis atrorubens. Foto di Andrea Mangoni.
C'è qualcosa di grandioso in questa idea della vita, con le sue infinite potenzialità, originariamente infuse dal Creatore in pochissime o in una sola forma; e, mentre questo pianeta ha continuato a roteare seguendo le immutabili leggi di gravità, da un inizio così semplice infinite forme, sempre più belle e meravigliose, si sono evolute e tuttora si evolvono.
Charles Darwin
E' con questa frase di Charles Darwin che si conclude il volume "L'origine delle specie"; è con questa stessa frase che si apre il Carnevale della Biodiversità, con cui dodici blogger italiani cercheranno di farvi appassionare sempre più a questo argomento, facendovi conoscere la bellezza e la grandezza insita in questa "banca" della vita.
“Infinite forme bellissime"... un magnifico argomento per inaugurare il nostro Carnevale. Sì, ma nel nostro caso, di cosa potrei parlarvi? Potrei parlarvi dell'impossibilità applicativa ed esistenziale di quell'aggettivo, “infinito”, o cercare di inquadrare i concetti di “bellezza” o “biodiversità”... Invece, per ora mi limiterò molto più semplicemente a parlarvi di alcuni organismi che sembrano in qualche modo racchiudere pur con debite limitazioni tutte e tre le parole del titolo. Oggi riesumerò infatti un argomento che aspettavo di trattare in primavera, ma visto il grigiore di questo periodo sarà perfetto per ravvivare le nostre piovose giornate invernali. Vi parlerò infatti di alcune magnifiche piante, le orchidee.
Una magnifica orchidea tropicale. Foto di Andrea Mangoni.
Vi sembra scontato parlare di orchidee? Oh, vi assicuro che non lo è. Si può scrivere e descrivere un mondo intero attorno alle orchidee senza che venga meno la curiosità verso questi organismi spettacolari. Essi rappresentano uno degli esempi migliori per parlare di biodiversità, bellezza, e varietà.
Infinite forme bellissime. Sì, le orchidee rappresentano nel mondo reale una buona approssimazione di questi concetti che a volte sembrano appannaggio di un mondo astratto. In più, sono legate al nome di Darwin, che le studiò a più riprese.

Epipactis helleborine. Foto di Andrea Mangoni


Cominciamo col dire che, se ovviamente le specie di orchidee non sono infinite, sono davvero tante. La famiglia Orchidaceae, dell'ordine delle Asparagales, conta infatti oltre 20.000 specie, e ne vengono scoperte ogni anno di nuove. Di queste, moltissime sono specie tropicali o subtropicali, ma non manca tra di loro chi non disdegna i gelidi territori dell'Artide e chi arriva quasi a lambire l'Antartide, virtualmente unico continente privo di orchidee. Le dimensioni? Variabilissime. La più piccola specie nota, scoperta di recente, appartiene al genere Platystele, ed è una minuscola epifita scoperta in Ecuador nel 2009 (tra l'altro, viveva sulle radici di un'altra orchidea!) che conta fiori di appena 2 mm di diametro; tra le orchidee più grandi invece le coloratissime orchidee tigre (Grammatophyllum speciosum Blume, 1825), chiamate anche orchidee canna da zucchero, che possono raggiungere e superare la tonnellata di peso, i cui grandi fiori di oltre 10 cm di diametro sono raggruppati in racemi alti fino a tre metri. I colori dei fiori? Un arcobaleno, come chiunque abbia avuto modo di vedere una sfilza di ibridi di Phalaenopsis davanti a sé in un vivaio. Le orchidee rivestono importantissimi ruoli nelle economie di certi Paesi: a parte infatti il commercio di esemplari destinati al mercato florovivaistico, non bisogna dimenticare che anche la profumatissima vaniglia viene prodotta a partire dai frutti di un'orchidea rampicante, la Vanilla parviflora, originaria del Messico ma esportata nelle regioni tropico-equatoriali di mezzo mondo per fini produttivi.

Angraecum sesquipedale. Fonte: Wikipedia
Le forme assunte dai loro fiori sono le più disparate, eppure sempre affascinanti e – vien logico da dire – bellissime. La corolla del fiore delle orchidee è formata da tre sepali e tre petali, uno dei quali detto labello prende spesso forma diversissima da specie a specie; dotato sovente di uno sperone cavo alla propria base, ha assunto con l'evoluzione il ruolo di “attrattore” di pronubi, in alcuni casi assumendo forme e colori veramente eccezionali. Proprio uno sperone d'orchidea ci riporta al buon vecchio Charles, che ha gentilmente prestato la sua frase per il titolo di questo post. Nel 1862 infatti Darwin, studiando il fiore di una bellissima orchidea malgascia, l'angreco o stella di Betlemme (Angraecum sesquipedale) si rese conto di una cosa piuttosto notevole: aveva infatti uno sperone lungo la bellezza di 25 cm. Visto che come la maggior parte delle altre orchidee era impollinata da insetti... come facevano questi a raggiungere il fondo dello sperone, vista la sua conformazione eccezionalmente lunga? Si trovò così a formulare l'ipotesi che esistesse una falena con una spiritromba sufficientemente lunga da arrivare a compiere l'impollinazione stessa; peccato che quella falena non esistesse, o meglio peccato che non fosse all'epoca nota alla scienza. Questa falla nelle conoscenze entomologiche e botaniche venne finalmente meno quando nel 1903 gli entomologi Rotschild e Jordan scoprirono l'esistenza di una particolare sottospecie di falena sfingide africana che effettivamente svolgeva il ruolo di impollinatore per questa specie: la Xanthopan morgani ssp. praedicta, che dovette così il nome subspecifico ad un chiaro omaggio alla previsione effettuata da Darwin vent'anni prima.
Siamo però abituati a pensare alle orchidee come a specie bellissime ed appariscenti... ma tropicali. Non pensiamo - se non raramente - al fatto che esistono anche da noi piante di questa famiglia, e anche parecchie! A seconda delle bizzarrie e delle revisioni che subisce la tassonomia di queste piante, vengono contati fino a 29 generi e 189 tra specie e sottospecie; l'ultima segnalata sarebbe Ophris murgiana, salita al rango di specie solo nel 2009. E non parliamo poi degli ibridi spontanei!
Orchis morio. Foto di Andrea Mangoni.
Orchis morio. Foto di Andrea Mangoni.
Molte delle orchidee spontanee italiane sono accumunate dal fatto di essere geofite, di avere cioè organi ipogei che permettono loro di sopravvivere anno dopo anno e di moltiplicarsi. Per alcuni generi, tali organi assumono la forma di due rizotuberi, vagamente simili ad un paio di testicoli, e proprio da qui viene il nome di orchidea: orchis significa infatti in greco “testicolo”, ed Orchis è pure uno dei generi italiani più belli e rappresentativi. Le orchidee italiane hanno di norma infiorescenze dalle forme più svariate: allungate come bastoncini fioriti, spiraleggianti oppure coniche come una turritella, dense di fiori oppure lasse. Dipendono in genere dagli insetti per la loro impollinazione, ed in alcuni generi per favorire l'arrivo dei pronubi l'evoluzione ha portato il labello a modificarsi in maniera incredibile. Le appartenenti al genere Ophrys, infatti, sono fiori privi di nettare, che hanno raggiunto un gradi di specializzazione, o meglio di coevoluzione con i propri pronubi davvero notevole. Abbiamo detto che non hanno nettare... cosa offrono allora agli insetti per attirarli, se non il cibo? Beh, offrono l'altra “spinta vitale” principale: il sesso. Il labello di queste piante infatti è di norma scuro, peloso, dotato di zone traslucide (specchio) che richiamano alcune aree glabre del corpo di certi insetti: insomma, somigliano parecchio all'addome delle femmine di certi imenotteri (api solitarie, sfecidi, vespidi). Se non bastasse l'aspetto, per convincere l'esapode maschietto, questo viene preso letteralmente per il... naso: il fiore produce infatti sostanze simili ai feromoni prodotti dalle femmine nel periodo dell'accoppiamento. Così l'imenottero, definitivamente gabbato, si precipita ad accoppiarsi col fiore, ricoprendosi di polline. Resosi conto dell'errore, si allontana sdegnato ma finisce presto per commettere di nuovo lo stesso sbaglio... fecondando così un altro fiore. E per evitare... errori, ogni specie di Ophrys attira uno specifico pronubo.
Ophrys bertolonii. Foto di Andrea Mangoni.
Ophrys bertolonii. Foto di Andrea Mangoni.
Se questo aspetto della riproduzione delle orchidee vi sembra spettacolare, aspettate di sentire il resto. Le nostre specie autoctone hanno infatti sovente una caratteristica peculiare: producono tantissimi semi, ma minuscoli... Così piccoli che mancano di albume e che hanno un embrione appena abbozzato. Insomma, sono semi che dispersi nell'ambiente hanno un'unica possibilità di sopravvivere: formare una micorriza con un minuscolo fungo (solitamente del genere Rhizoctonia) che fa penetrare le proprie ife nel seme e che fornisce ad esso tutte le principali sostanze nutritive, fino a che non appaiono le prime foglioline. Il bello è che questo può accadere dopo molto tempo dall'inizio della simbiosi micorrizica: in alcuni casi, persino dopo dodici anni! Tra l'altro, non è chiaro fino a che punto la simbiosi sia mutualistica: se in molti casi il fungo trova poi da vivere nelle radici dell'orchidea, una volta che la pianta si è sviluppata, in altri invece pare che l'interazione tra fungo e orchidea finisca con la crescita di quest'ultima.
Il giusto approccio davanti ad un campo di orchidee: meraviglia, rispetto e macchina fotografica!
In ogni caso, è' anche a causa di questo ciclo vitale dalle primissime fasi lunghe e complesse che le orchidee spontanee sono di norma ottimi indicatori biologici: possono di norma compiere il loro completo ciclo vitale solo in ambienti ecologicamente stabili e maturi. Le orchidee sono, giustamente, protette dalla Convenzione di Washington o CITES, che ne vieta detenzione, commercio e raccolta a meno che non si tratti di specie riprodotte in condizione controllate. Si tratta di un'opera meritoria che impedisce legalmente che qualcuno possa decidere di portarsi a casa qualcuno di questi gioielli per metterselo in giardino. Questa protezione però si applica in caso di commercio, mentre se viene distrutto un habitat in cui vivono delle orchidee... la cosa passa pressoché inosservata.
Esterno. Le rive di un canale a Codevigo (PD). Siepi di salici, pioppi e robinie, separano il canale da un argine ricoperto da un prato stabile ricchissimo di fiori spontanei.
L'habitat incontaminato. Foto di Andrea Mangoni.
Tra salvie, papaveri e brugole cresce una meravigliosa colonia di Neotinea tridentata. Decine e decine di esemplari, piccoli, medi e grandi, che sbucano rosei tra l'erba alta. Uno spettacolo magnifico. Mi aggiro tra i prati, scatto fotografie, resto un po' a godere il tramonto.
Neotinea tridentata. Foto di Andrea Mangoni.
Neotinea tridentata. Foto di Andrea Mangoni.
Ritorno l'anno dopo. La siepe di salici non c'è più. Tutto eliminato per ottenere pellet da stufe. Il terreno intorno scavato ed asportato per uno spessore di 30 e passa centimetri. Al posto del prato stabile, una selva di rovi e luppolo. Cerco le orchidee che mi avevano affascinato così tanto... nulla di nulla.
Lo stesso habitat delle foto sopra, totalmente distrutto. Foto di Marco Uliana.
Poi - per fortuna! - lo trovo: poco dopo lo scempio, dove ricomincia il prato stabile, ecco un ultimo magnifico esemplare di Neotinea. Non mi rimane che sperare che questo piccolo gigante possa piano piano ricolonizzare, con la sua discendenza, ciò che rimane di quello che era un habitat magnifico.
TROVERETE UN POST RIASSUNTIVO CON TUTTI GLI INTERVENTI DI QUESTO PRIMO APPUNTAMENTO COL CARNEVALE DELLA BIODIVERSITA' NEL SITO DE
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Bibliografia
Darwin C., I vari espedienti mediante i quali le orchidee vengono impollinate dagli insetti, Pisa, ETS, 2009.
Girelli, E., Le orchidee della Val d'Astico e della val Leogra nel vicentino. Vicenza, Neri Pozzi, 1987.
Lazzari, C., Le orchidee spontanee del Veneto. Sommacampagna, Cierre Edizioni, 2008.
Ledford H., The flower of seduction. Nature 445: 816-817, 2007.
Medagli, P., & Cillo, C., Ophrys murgiana Cillo, Medagli & Margherita, specie nuova delle Murge (Puglia, Italia meridionale). GIROS notizie 41: 23-25, 2009.
Neotinea tridentata. Foto di Andrea Mangoni.
L'ultimo splendido esemplare di Neotinea tridentata dell'habitat visto sopra. Foto di Andrea Mangoni.
Maschio di Tacchino Ermellinato di Rovigo. Foto di Andrea Mangoni, esemplare di Marco Bindocci.
Tra le tante razze di tacchini italiane, il Tacchino Ermellinato di Rovigo è una delle poche che sia ben conosciuta anche al di fuori della sua regione d'origine, il Veneto. Vuoi per la bella livrea, vuoi per le buone attitudini produttive e per l'istinto alla cova, questa razza si è diffusa abbastanza bene tra gli appassionati, pur restando comunque poco comune.
Fu il Prof. Raffaello Quilici, dell'Istituto Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo, nel 1958, che partendo da tacchini comuni ed inserendo sangue di Narragansett (una delle più belle razze americane di tacchini) ottenne ad un certo punto della selezione tramite mutazione un piccolo gruppo di capi a livrea ermellinata, sulla quale continuare gli sforzi per uniformare le caratteristiche produttive e di taglia.
La razza è caratterizzata da tarsi color carne, pelle bianca, una livrea ermellinata che ricorda molto quella della razza tedesca Crollwitzer, e da una taglia media, con femmine che si attestano sui 5 Kg e maschi invece sugli 11 Kg. Si tratta di animali molto rustici e precoci, ad impennamento rapido, adatti anche all'allevamento in montagna. Le femmine sono ottime chiocce, perfette per portare a termine covate di numerosi avicoli, anche in virtù della loro taglia non eccessiva.
Purtroppo la scarsa uniformità somatica degli esemplari porta spesso a pensare di poter migliorare le caratteristiche della livrea tramite l'incrocio con altre razze. In verità, il semplice sforzo selettivo degli allevatori dovrebbe essere più che sufficiente per elevare l'uniformità della livrea di questa razza.
Gli animali in foto appartengono all'amico Marco Bindocci, e provengono dal ceppo dell'Università di Perugia; ho anche avuto il piacere di vedere un ceppo ugualmente bello e molto uniforme, ben caratterizzato, presso un allevatore di Casalserugo (PD), che era partito da un maschio Ermellinato avuto dall'allora Istituto San Benedetto da Norcia di Padova e da un gruppo di femmine bronzate di taglia adeguata. E' inutile dire che in questo caso, che dovrebbe essere preso da esempio, sono stati la caparbietà e l'assidua selezione operata da questo allevatore a permettere un simile risultato. Dovrebbe servire da spunto e da riferimento per ogni allevatore, specie in questi tempi in cui la parola "selezione" sembra spaventare gli appassionati più di tante altre.

Femmina in cova di Tacchino Ermellinato di Rovigo. Foto di Andrea Mangoni, esemplare di Marco Bindocci.

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AVICOLTURA E BIODIVERSITA': LETTURE PER SAPERNE DI PIU'

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Giovane gallina di Polverara. Foto di Andrea Mangoni.
Come ho già detto, il mio tentativo di salvare il ceppo di Polverara di Bruno Rossetto passa ed è passato anche attraverso la formazione di gruppi satellite, affidati ad amici e conoscenti e costituiti da quegli esemplari che pur scartati dalla selezione hanno delle caratteristiche tali da non poter esser considerati semplici scarti, e che disponendo di più spazio meriterebbero di esser mantenuti in allevamento.
Gallina di Polverara ed incrocio. Foto di Andrea Mangoni.
In quest'ottica, qualche tempo fa ho fatto dono a Francesco, un mio vicino di casa che a sua volta lo scorso anno mi aveva dato i primi esemplari di anatra muta di Barberia autoctona, un gruppetto composto da una pollastra, un giovanissimo galletto ed un incrocio di seconda generazione di Polverara. Passate alcune settimane, sono andato a vedere per altri motivi l'allevamento familiare di Francesco ed ho potuto vedere i progressi dei vari esemplari.

La femmina nera che gli avevo dato è un'animale di taglia discreta, ma non eccelsa, e somiglia parecchio per forma alla Polverara fotografata da Anita Vecchi negli anni '40-'50 del secolo scorso. ha una bella mantellina, ed una coda ben rilevata; la forma del ciuffo non mi piace granchè, ma i motivi che mi avevano spinto a cederla erano altri: mancava totalmente di cresta a cornetti ed aveva un'ernia cerebrale abbastanza sviluppata. L'altra femmina, un incrocio bianco, era invece eterozigote per la cresta a cornetti e possedeva pelle gialla. Da ultimo il galletto: la principale pecca erano la taglia piccolina e la presenza di tracce di rosso su remiganti e sella, oltre che la totale assenza (o quasi) di barba e favoriti; in compenso ha cresta a cornetti splendida, pelle bianca, un bel portamento e soprattutto orecchioni candidi eccezionali per questa razza.


Gli animali stanno crescendo benissimo e saranno presto in grado di riprodursi. In primavera quindi, se le loro uova saranno affidate a delle chiocce amorevoli, sarà possibile avere una nuova generazione e soprattutto animali con caratteristiche tali da compensare i difetti dei genitori. In questo modo tra qualche anno potrei avere, vicino casa, un altro ceppo parallelo al mio da cui attingere futuri riproduttori per tagliare il sangue del mio gruppo di animali.

Giovane gallo di Polverara. Foto di Andrea Mangoni.
Il bellissimo fiore di Lilium martagon. Foto di Andrea mangoni.

“Guardate gli uccelli del cielo; non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il vostro padre celeste li nutre. Or, non valete voi più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi può aggiungere alla durata della sua vita un solo cubito? E perché darsi tanta pena per il vestito? Guardate come crescono i gigli del campo: non lavorano, né filano, eppure vi assicuro che nemmeno Salomone, in tutta la sua gloria, fu mai vestito come uno di essi. Ora se Dio riveste così l’erba del campo, che oggi c'è e domani viene gettata nel forno, quanto più vestirà voi, gente di poca fede? Non vogliate dunque angustiarvi dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Di che ci vestiremo?” Di tutte queste cose si danno premura i pagani; ora il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutto questo.”

Vangelo di Marco, 6, v. 26

La prima volta che ho visto un giglio selvatico, tra le montagne del Cadore, mi è tornato alla mente proprio questo passo del Vangelo. Ricordo di aver pensato che qualcuno avesse gettato dei bulbi coltivati con l'immondizia lungo una scarpata. Le corolle arancio brillanti, aperte verso il cielo, erano così slealmente sgargianti da illuminare da sole l'intero prato, togliendo luce a tutti gli altri fiori spontanei.

I gigli (gen. Lilium) sono piante appartenenti alla famiglia delle Liliaceae, usate un tempo anche nella farmacopea tradizionale. Tra le specie che vivono nelle nostre montagne e nei nostri boschi, Lilium martagon (foto sopra e a destra) e Lilium bulbiferum o croceum sono certo due delle più rappresentative. Ma ovviamente si tratta di un genere di piante che molto ha offerto e che molto ha da offrire al giardino di chi ama questi spettacolari candelabri barocchi pieni di colore. Ovviamente oltre alle tante specie botaniche i floricoltori e gli appassionati hanno dato vita a innumerevoli ibridi e cultivar, tanto da soddisfare le esigenze di ogni palato.

Lilium martagon. Foto di Andrea Mangoni.Credo sia inutile sottolineare come i gigli siano vittime di parassiti di ogni genere e malattie. Sono piante decisamente delicatine, tanto che credo fosse un Lord inglese ad affermare: "tacchini e gigli hanno una sola cosa in comune, e cioè l'ambizione a morire". Uno dei più temibili è la criocera del giglio, un piccolo coleottero rosso che se ne nutre avidamente, e contro cui la difesa migliore rimane un'osservazione costante unita eventualmente ad un'eliminazione manuale dei parassiti. Senza parlare poi di limacce e millepiedi, funghi e virus... Insomma, piante da curare con attenzione!

Come moltiplicare i gigli? Beh, se il nostro scopo non è quello di cercare di selezionare nuovi ibridi o varietà, la propagazione vegetativa di queste piante è la via più facilmente attuabile, e per di più siamo proprio nel momento migliore. A fine estate prendete i bulbi e staccate delicatamente le squame esterne che li compongono; potete toglierne fino quasi la metà, senza che il bulbo poi muoia. Nel caso di specie come Lilium bulbiferum, potrete utilizzare invece direttamente i bulbilli che crescono all'ascella dell'inserzione fogliare. Prendete dunque le squame e/o i bulbilli, mescolateli a sabbia e terriccio umidi e metteteli in un sacchettino di plastica trasparente. Soffiate dentro al sacchettino, quindi richiudetelo e lasciatelo in una posizone di ombra luminosa, in un punto riparato dalle gelate. Durante l'autunno e l'inverno i bulbilli produrranno radici, e le squame staccate formeranno a loro volta alla loro base dei bulbilli che radicheranno ben presto; in primavera vi ritroverete con delle minuscole piantine composte da una fogliolina, un piccolo bulbo e qualche radice, che trapianterete in vaso o direttamente all'aperto. piano piano i bulbi cresceranno, e presto avrete una nuova generazione di magnifici e splendidi gigli per adornare il vostro giardino.

Per finire, un'ultima raccomandazione. Se vi siete innamorati dei gigli selvatici ritratti nelle foto, vi prego: NON RACCOGLIETELI IN NATURA! Si tratta di specie spesso protette ed a volte in forte rarefazione per il degrado dei loro habitat. Per fortuna esistono vivai specializzati in cui poter trovare esemplari coltivati di specie selvatiche, a volte sotto forma di cultivar di particolare bellezza (come ad esempio la varietà bianca di Lilium martagon) . Rivolgetevi a queste realtà vivaistiche, e lasciate alle nostre montagne questi fiori di eccezionale bellezza.

Lilium bulbiferum. Foto di Andrea Mangoni.