El stropàro, un tesoro di albero.

Cesto tradizionale in salice


Pochi alberi sono stati più diffusi, nelle campagne venete, dello stropàro, il salice da vimini (Salix viminalis). Piantato lungo i fossi o in testa ai filari di viti, lo stropàro rappresentava per i nostri contadini un vero e proprio tesoro. Da esso infatti si ricavavano le stròpe, rami di un anno che si usavano per legare le viti ai sostegni, o gli "stropèi", rametti più piccoli con cui invece si fissavano i tralci ai fili durante la potatura. Si iniziava a febbraio, a raccoglierne i rami sottili e flessuosi e a riunirli in fascine, che spesso venivano lasciate direttamente a terra, vicino ai filari delle vigne. Dalle fascine i contadini tagliavano gli stropèi, i rami sottili, e con gesti rapidi e sicuri legavano rami e tronchi. Erano estremamente solidi, gli stropèi: le legature fatte con essi duravano un anno o due senza problemi, e quando si rompevano bastava lasciarli sul prato, dove si sarebbero decomposti senza creare danno alcuno.



Del resto gli stròpari avevano più di una funzione, e non solo per l'uomo. Capitozzati e ceduati ogni anno, ben presto formavano tronchi contorti e bitorzoluti, ricchi di cavità e anfratti che offrivano riparo a mille specie diverse di animali: cinciallegra e passera mattugia vi facevano il nido, in primavera, mentre l'assiolo preferiva le cavità dei più grandi tronchi dei selgàri, i salici bianchi (Salix alba), piantati per ricavarne palerie. Nella rosura all'interno del tronco si stabilivano formiche, cetonie, persino il raro Osmoderma eremita. E poi ancora ramarri che si arrampicavano sul tronco, merli che intrecciavano i nidi alla base dei rami, dove questi crescevano più fitti, cerambici odorosi che ne minavano il legno e che i nostri nonni usavano per profumare il tabacco. Un microcosmo intero racchiuso in un solo albero.
Ma ovviamente coi salici non si facevano solo legacci. Le stròpe raccolte, lasciate seccare e poi riammorbidite lasciandole nell'acqua dei fossi venivano usate per produrre cesti e contenitori di varie dimensioni, che servivano per la raccolta dell'uva così come in cucina, o ancora per fare caponàre e gabbie per gli animali da cortile. Un tesoro di albero, dicevo, che - con lo scomparire del mondo rurale - si è certamente rarefatto ma che ancora resiste, lungo fossati e siepi, memore dei secoli passati. Perché - ricordiamolo, questi salici erano riprodotti per talea, coi figli e i nipoti che prendevano un ramo dello stropàro piantato da nonni e papà per farne un nuovo esemplare, e continuare la tradizione. E così, secolo dopo secolo, abbiamo realizzato cloni, copie dei salici da vimini che già gli antichi Veneti ai tempi dei Romani coltivavano allo stesso modo. Esseri viventi che vivono da centinaia di anni, passando di generazione in generazione, di mano in mano, di contadino in contadino, fino ad arrivare a noi, alle nostre campagne, ultima rappresentazione - e forse la più concreta - del concetto di immortalità.

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