maschio di anatra muta


Le anatre mute che ho portato a casa settimane fa si sono adattate bene alla loro nuova dimora. Sono animali molto tranquilli e tra i più semplici - e silenziosi! - avicoli da allevare. Solo quando agitati, ad esempio se mi avvicino troppo, sollevano i ciuffi di penne sul capo e il maschio inizia a soffiare, col collo che avanza e arretra ritmi valente come uno strambo stantuffo. Amo la loro livrea, elegante e semplice, e soprattutto amo i loro grandi occhi scuri, che sembrano piccoli laghi neri. Sono sempre vivaci e attenti, e sembrano scrutarmi con benevolo interesse - ma anche con un po' di diffidenza - quando vado a cambiare e pulire loro l'acqua. Proprio l'approvvigionamento idrico andrà migliorato fortemente quest'anno. Voglio fare arrivare l'acqua corrente in tutti i recinti, in modo da garantire ai miei animali sempre la disponibilità costante di acqua. Per le anatre si tradurrà anche nella possibilità, per me, di pulire più efficacemente la vasca che funge loro anche come bagno privato e alcova. Si, perché queste anatre si accoppiano volentieri in acqua o - come ora, in cui la vasca è troppo piccola per ospitarle entrambe - nelle sue vicinanze. Così non è raro vedere maschio e femmina, congiunti, mentre bevono o si bagnano collo e testa. 

uova di anatra muta


 Da alcuni giorni poi la femmina ha scelto uno dei rifugi che ho predisposto per lei per deporvi le uova. Sono uova grosse, dal guscio verdastro e liscio, che sembra quasi alabastro. Non lascerò tutte le uova nel nido: ogni giorno ne lascio un paio, in modo che la femmina continui a deporre, e porto via le più vecchie. Le sto raccogliendo per destinarle all'incubatrice, conscio che richiederanno qualche sforzo in più rispetto alle uova di gallina per ottenere una buona schiusa. Una volta raccolta una dozzina di uova, lascerò le successive alla femmina, in modo che possa covarle ed espletare così il suo istinto materno. Sono ottime chiocce, di solito, le anatre mute, e madri premurose. Per quest'anno non cederò nuova o anatroccoli, e voglio invece puntare a tenere soggetti con caruncole sempre più nere come si vedevano nei quadri del XVII secolo, dove le anatre mute, da poco giunte in Europa ma già ampiamente allevate e selezionate, sfoggiavano le loro eleganti livree sulla tela per il piacere di pochi signori. Oggi ho il piacere di allevare questi animali diversi dai ceppo commerciali, pesanti e dotati di caruncole rosse; eleganti e leggeri, i miei soggetti sembrano invece usciti appunto da una tela seicentesca. Non vedo l'ora di poterne ammirare la nuova, soffice e zampettante generazione.

femmina di anatra muta


Cesto tradizionale in salice


Pochi alberi sono stati più diffusi, nelle campagne venete, dello stropàro, il salice da vimini (Salix viminalis). Piantato lungo i fossi o in testa ai filari di viti, lo stropàro rappresentava per i nostri contadini un vero e proprio tesoro. Da esso infatti si ricavavano le stròpe, rami di un anno che si usavano per legare le viti ai sostegni, o gli "stropèi", rametti più piccoli con cui invece si fissavano i tralci ai fili durante la potatura. Si iniziava a febbraio, a raccoglierne i rami sottili e flessuosi e a riunirli in fascine, che spesso venivano lasciate direttamente a terra, vicino ai filari delle vigne. Dalle fascine i contadini tagliavano gli stropèi, i rami sottili, e con gesti rapidi e sicuri legavano rami e tronchi. Erano estremamente solidi, gli stropèi: le legature fatte con essi duravano un anno o due senza problemi, e quando si rompevano bastava lasciarli sul prato, dove si sarebbero decomposti senza creare danno alcuno.



Del resto gli stròpari avevano più di una funzione, e non solo per l'uomo. Capitozzati e ceduati ogni anno, ben presto formavano tronchi contorti e bitorzoluti, ricchi di cavità e anfratti che offrivano riparo a mille specie diverse di animali: cinciallegra e passera mattugia vi facevano il nido, in primavera, mentre l'assiolo preferiva le cavità dei più grandi tronchi dei selgàri, i salici bianchi (Salix alba), piantati per ricavarne palerie. Nella rosura all'interno del tronco si stabilivano formiche, cetonie, persino il raro Osmoderma eremita. E poi ancora ramarri che si arrampicavano sul tronco, merli che intrecciavano i nidi alla base dei rami, dove questi crescevano più fitti, cerambici odorosi che ne minavano il legno e che i nostri nonni usavano per profumare il tabacco. Un microcosmo intero racchiuso in un solo albero.
Ma ovviamente coi salici non si facevano solo legacci. Le stròpe raccolte, lasciate seccare e poi riammorbidite lasciandole nell'acqua dei fossi venivano usate per produrre cesti e contenitori di varie dimensioni, che servivano per la raccolta dell'uva così come in cucina, o ancora per fare caponàre e gabbie per gli animali da cortile. Un tesoro di albero, dicevo, che - con lo scomparire del mondo rurale - si è certamente rarefatto ma che ancora resiste, lungo fossati e siepi, memore dei secoli passati. Perché - ricordiamolo, questi salici erano riprodotti per talea, coi figli e i nipoti che prendevano un ramo dello stropàro piantato da nonni e papà per farne un nuovo esemplare, e continuare la tradizione. E così, secolo dopo secolo, abbiamo realizzato cloni, copie dei salici da vimini che già gli antichi Veneti ai tempi dei Romani coltivavano allo stesso modo. Esseri viventi che vivono da centinaia di anni, passando di generazione in generazione, di mano in mano, di contadino in contadino, fino ad arrivare a noi, alle nostre campagne, ultima rappresentazione - e forse la più concreta - del concetto di immortalità.



Marzo è arrivato troppo presto. O forse è solo che febbraio è sembrato volare, avvolto (o meglio, travolto) da una dose di lavoro esorbitante e ottundente? Il tempo che mi è rimasto per la campagna è stato pochissimo, e quel poco l'ho dovuto forzatamente dedicare al frutteto che in questa stagione reclama le giuste attenzioni. Le prime fioriture stanno arrivando, e prima che le gemme turgide esplodano in boccioli rosei e candidi gli alberi vano potati, gli innesti fatti, i trapianti effettuati. Dalla potatura di quest'anno dipende, in pratica, il raccolto del prossimo anno: è ora infatti che influenzeremo la fioritura degli alberi della primavera dell'anno venturo. Al momento ho provveduto a potare peri, peschi, gelsi e albicocchi; per questi ultimi ho fatto appena in tempo, perché i loro fiori stanno già sbocciando, carnosi e bellissimi trasformando in nuvole rosee le chiome degli alberi.

Inoltre, anche quest'anno cercherò di portare nuove varietà nel frutteto, tramite innesti mirati. Da un anziano agricoltore ho avuto in dono marze di due varietà di pero antico, oltre che dei tralci di vite Corbinea o Corbinella; ho già provveduto a innestare i primi a spacco e a corona, sia su pero che su cotogno; la Corbinea la userò sia per rinnovare un vecchio filare sia per provare a innestare delle viti riparie nate lungo il fossato dai vecchi portainnesti di un vitigno ormai scomparso. Ho poi provveduto a invasare delle piante di ciliegio nate spontaneamente per poi innestarle con marze provenienti da una pianta che avevo a sua volta innestata a partire da un albero secolare trovato in una casa abbandonata d contadini. L'innesto a spacco è in questo caso uno dei più semplici: si prendono le marze, porzioni di rami dell'anno, e si affilano a cuneo nella parte inferiore. Si taglia il portainnesto, nel mio caso un franco, si effettua uno spacco diametrale abbastanza profondo e vi si infila la marza, facendo in modo che da un lato la corteccia di nesto e portainnesto (o meglio ancora, lo strato del cambio) coincidano. Si lega strettamente, si copre la ferita con mastice da innesti e si aspetta, speranzosi, di veder esplodere le gemme dando seguito all'eredità di queste antiche regine dei campi.


E così, ovunque ci si giri, ora, nella campagna dietro casa, ci si imbatte in rami tagliati. La potatura, come abbiamo detto, è importantissima. In generale cerco di rispettare la forma degli alberi, svuotando il centro della chioma, contenendone le dimensioni accorciando i rami con tagli di ritorno, eliminando i succhioni dritti l cielo come campanili. Cosa fare con gli scarti? Il legno migliore verrà destinato alla stufa, mentre parte dei rami più danneggiati sarà portata in campagna, nei cumuli accanto ai fossati, dove cerco di lasciare agli insetti xilofagi dei siti di deposizione invitanti, cosa di cui a ben vedere il picchio verde che continua a visitare la catasta di legna come fosse un fast food dovrebbe essermi grato. Alcuni dei rami più dritti e sottili mi potranno servire per qualche lavoretto, o nell'orto; altri invece diventeranno cenere da spargere sui campi, come concime. Nulla, in ogni caso, andrà sprecato. Ma marzo è arrivato, le gemme sono sempre più frettolose, e io devo sbrigarmi a finire questi lavori nel frutteto: mi attendono infatti le prime schiuse dell'anno, nuovi lavori in pollaio, e qualcosa da fare anche nella campagna. Via allora, bando alle ciance e continuiamo.