Dicembre per il frutteto sembra un periodo vuoto e triste. Ma a portare uno sprazzo di colore nel grigiore invernale ci sono i cachi (Diospyros kaki), che col loro arancio vivo trasformano i propri rami spogli in alberi di Natale, pronti per la festa. In verità, in questa stagione, di frutti sui rami ne sono rimasti ben pochi. Gli uccelli infatti li hanno depredati, beccandoli, forandone la buccia e svuotandoli. Eppure, anche quando cadono, mantengono la propria bellezza: traslucidi e solcati da venature brune, sembrano dolci glassati di fresco che, aperti, rivelino al proprio interno una sorgente di braci rosse. Gli uccelli, dicevo. Si, gli uccelli apprezzano forse più di chiunque altro i cachi maturi. Non appena la polpa diventa appena più tenera si alternano appesi ai rami per rubacchiarla attraverso gli squarci che i loro becchi causano sulla buccia. Nel mio frutteto sono soprattutto merli, cinciallegre e codibugnoli a goderne, tanto che raramente qualche frutto resta ancora sui rami a fine dicembre.
In effetti, quando sono andato per scattare qualche foto, solo un frutto resisteva ancora integro sui rami, in alto, nascosto da una selva di ramoscelli sottili, quasi che l'albero volesse proteggere con mani grinzose l'ultimo dei suoi gioielli dall'ingordigia dei pennuti. Proveniente dall'oriente, coltivato da più di 2000 anni, era notissimo per le molte virtù.



Per i permacoltori esso è una vera miniera d'oro: richiede pochissime cure, si adatta anche a climi moderatamente rigidi, produce frutti in una delle stagioni più avare e non ha bisogno di trattamenti contro parassiti o altro: può essere invece utile una periodica fertilizzazione aggiuntiva, specie negli anni in cui frutti sono numerosi, per evitarne la cascola estiva. L'albero di cachi ha un altro grande vantaggio: le grosse foglie carnose, cadute al suolo, si trasformano in humus arricchendo il terreno sottostante la pianta e rendendolo adatto anche a coltivare alla sua ombra frutti di bosco come more e lamponi. Ma anche in pollaio la sua utilità si fa sentire.
Nel recinto dei polli, infatti, l'albero di cachi svolge sia il ruolo di riparo che di... "mangiatoia". In estate produce una bella ombra fitta che rinfresca gli animali, mentre d'inverno i polli che dormono tra i suoi rami hanno modo di becchettare i frutti maturi. In effetti, ora che gli animali sono chiusi in recinto, cerco sempre di fornire loro alcuni cachi: ricchi di vitamine B e C, betacarotene, potassio, proteine, con un minimo apporto calorico, questi frutti son delle vere e proprie bombe nutrizionali in questa stagione in cui anche il pascolo è poco generoso. E ovviamente questi scrigni di bontà non sono buoni solo per i polli: raccolti ancora sodi e fatti maturare in casa, magari tra le mele, quando diventano morbidi possono essere tagliati in due e svuotati con un cucchiaino, magari dopo averne cosparso la polpa con un po' di cacao in polvere. E così i cachi vi daranno ancor più motivi per spingevi a coltivarli nel vostro frutteto, portando in un grigio inverno una ghirlanda arancione.


Gruppo di galline Boffa, anno 2009


In questi giorni ho ricevuto diverse domande sia sul perché io abbia voluto riprendere un gruppo di gallina Boffa dopo tanti anni, sia sul modo in cui si studiano e si ricercano le antiche razze avicole. Ho deciso di prendere due piccioni con una fava e di rispondere a entrambi i quesiti, visto che essi sono profondamente intrecciati. Ho ripreso la Boffa perché sono molto legato a questa razza. L'ho cercata con caparbietà per anni, convinto che qualcosa dell'antica stirpe potesse essere rimasto, e alla fine il tempo mi ha dato ragione. Nel 2009 infatti ho riportato in Veneto, dopo un esilio umbro durato oltre 50 anni, il gruppo di riproduttori che si vede in questa foto. Ma come ero arrivato a questo? 

Ovviamente con impegno e anche con un pizzico di fortuna: dopo aver visto delle foto molto interessanti apparse su un forum ho contattato un avicoltore perugino che allevava un gruppo di questi animali da oltre 50 anni, eredità di una zia scomparsa. Ma era possibile avere una ragionevole certezza che si potesse trattare proprio della Boffa? Qui entra in gioco la ricerca storica in campo avicolo e alcune nozioni di genetica dei polli. Vediamo come. Per conoscere le razze tipiche di un territorio, normalmente, possiamo utilizzare almeno due canali: libri e riviste di Avicoltura, che fanno spesso luce su come certe razze erano nate, si erano diffuse e su quali fossero le loro caratteristiche, e le testimonianze storiche dei contadini anziani, che possono raccontare dettagli preziosi non presenti in letteratura. 

Procedendo in questo senso, si cerca di ampliare la propria visione sempre di più, e sempre attraverso fonti meno "convenzionali", come ad esempio libri antichi di geografia, economia, letteratura, poesia; foto storiche prese da vecchi album di famiglia, in cui magari si scorge la sagoma di qualche volatile, dietro gli sguardi e le pose austere dei nonni in posa; e poi ancora quadri, nature morte, incisioni, bassorilievi e statue, conservati in pinacoteche, collezioni private, chiese e oratori, che possono riservare incredibili sorprese. Tutti questi dati vengono presi, analizzati, ponderati e vagliati attraverso il crivello delle nozioni che abbiamo sulla genetica del pollo, che ci permettono di intendere se ciò che abbiamo di fronte possa comprovare l'esistenza di una razza antica e per capire soprattutto se i soggetti eventualmente ritrovati possano essere compatibili con i dati raccolti in precedenza. 

Nel caso della Boffa, gli animali che mi trovai di fronte nel 2009 non solo rispecchiavano l'identikit che mi avevano lasciato alcuni contadini ottuagenari padovani, ma sembravano usciti dalle foto che avevo ritrovato in alcune riviste degli anni '30 del secolo scorso, come quella in bianco e nero di questo post. Infine, tramite un'altra lettura avevo potuto confermare che la zona da cui provenivano gli zii che avevano dato a quel contadino i primi capi era proprio una di quelle in cui la Boffa era stata diffusa dal Pollaio Provinciale di Padova. 

Boffa, anni '30 del secolo scorso

Ma la ricerca ovviamente non finiva qui. Infatti restavano tanti altri punti da chiarire: quali livree esistevano? Che aspetto avevano i primi soggetti di questa razza, e soprattutto, da quanto tempo si aggiravano nelle campagne padovane? Ovviamente anche a queste domande si poteva trovare risposta: in una vecchia foto scattata in un cortile a Roncajette emerse la prova della presenza della Boffa nera; e dagli scritti del compianto Italo Mazzon, ecco uscire un'incisione ottocentesca che raffigurava una testa di Boffa e che faceva maggior luce sull'origine di questa razza, frutto dell'incrocio tra polli ciuffati e barbuti (Polverara, Padovana) con poli mediterranei locali. Ma le sorprese non erano finite: continuando le ricerche, ecco che in un libro di ornitologia pubblicato nel XVIII secolo compare una bella Boffa, ancora con caratteristiche di transizione, chiamata col nome di gallina patavina barbuta. L'immagine, che vedete in foto, rappresenta la più antica testimonianza della razza? Probabilmente no: in un quadro antecedente di un pittore fiammingo operante in Veneto ecco comparire infatti una gallina simile in tutto e per tutto alle moderne Boffe. 

Insomma, la ricerca storica diventa appassionante, coinvolgente, intrigante come la ricerca del Graal da parte di Indiana Jones. Ma il premio, a volte, è quello di diventare custodi di un frammento di storia. Ed è per questo che ho deciso di riprendere la Boffa: per tornare a contribuire a selezionare e a traghettare nel 21° secolo l'eredità dei nostri avi.

La Boffa in un'incisione del '700


Gallinelle nane


Nel corso del tempo non mi sono dedicato solo alle razze autoctone, ma ho lentamente lavorato anche a qualcosa di mio, delle gallinelle particolari. Nel mio allevamento sono presenti da tantissimo tempo, dal 2008 per la precisione. Sono le nanette, frutto di incroci, spesso ottime per la cova. Hanno un retaggio complesso, non c'è che dire: già quando le presi nelle loro vene scorreva sangue di Olandese nana, Combattente inglese nano, Bantam, Sebright. Nel mio allevamento si aggiunse il sangue della Polverara, e quei primi soggetti nati da me portarono l consapevolezza di voler lavorare a una "razza" mia. Ma quali erano le caratteristiche che volevo? Innanzitutto, volevo animali con la cresta a cornetti. Era una caratteristica che amavo. Inoltre desideravo che avessero il ciuffo, almeno in parte. Infine, visto che erano nati dei magnifici galletti a piumaggio femminilizzato, pensai sarebbe stato interessante provare a fissare tale carattere nelle generazioni a venire. 


Gallinelle nane


In effetti, non avevo spazi e tempo per lavorare con troppa cura a questo progetto: selezionai perciò, anno dopo anno, i soggetti che per forma e caratteristiche più si avvicinavano alla mia idea, lasciandoli liberi di riprodursi liberamente nel frutteto. Ma la situazione non poteva durare a lungo, ovviamente. Infatti mi ritrovai a tenere gli animali in recinto e in gabbia, intensificando gli sforzi sulle livree nera e sparviero. Quest'anno ero arrivato ad avere le prime coppie di esemplari con cresta a cornetti perfettamente fissata, oltre a soggetti con tale carattere in eterozigosi; ma la sfortuna ha fatto sì che dopo l'attacco di un predatore sia rimasto solo un galletto con questa tipologia di cresta e piumaggio femminilizzato. L'ho accompagnato a tre femminucce con cresta a cornetti in eterozigosi, una delle quali dotata di ciuffo. Non mi resta che attendere la prossima generazione di queste piccole, per compiere un nuovo passo nella selezione di questi polli che considero davvero miei.


Gallinelle nane


Phragmites australis


Esiste un breve lasso di tempo, tra ottobre e novembre, in cui la muraglia di cannuccia di palude (Phragmites australis) che circonda uno dei fossati della mia proprietà vira dal verde acceso al giallo. Un giallo intenso, potente, che al tramonto assume una tinta calda e avvolgente, che pervade tutto esattamene come questa pianta riesce a pervadere e penetrare gli specchi d'acqua, creando vere muraglie viventi fittissime (da phragma, che in Greco indicava il muro o lo steccato, deriva il suo nome generico). Ma sono molte le dote nascoste di questa pianta apparentemente così umile, seppure invasiva. Infatti nelle barene della laguna di Venezia questa pianta era enormemente apprezzata. I fusti, lunghi fino a oltre 3 metri, venivano raccolti, privati delle foglie e utilizzati dalle popolazioni locali per la costruzione dei tetti dei casoni, le abitazioni tradizionali del veneziano, padovano e trevisano, di cui usufruivano contadini e pescatori. Raccolte in fasci, legate strettamente le une alle altre, lentamente impermeabilizzate dagli strati di fuliggine esalata dalla legna del focolare interno, le cannucce di palude formavano tetti caratteristici, scomparsi da buona parte del territorio ma di cui troviamo ancora rari esempi come in Saccisica, a Piove di Sacco, e nella laguna che circonda Caorle. 


Phragmites australis

Ma in molte località d'Europa la cannuccia palustre aveva trovato il medesimo impiego, basti pensare alle coperture dei molini a vento olandesi. Certo però queste piante possono offrire ancora impieghi inattesi. Del resto la Phragmites australis è una pianta eccezionalmente utile in acquacoltura, grazie alle grandi doti fitodepuranti: può infatti aiutare nell'eliminazione degli inquinanti di origine organica, il che la rende una fantastica alleata di chi voglia costruire un impianto di acquacoltura o una biopiscina all'aperto. I rizomi striscianti si propagano rapidamente, e la morte della parte aerea arricchisce di materiale organico prezioso il terreno. Anticamente poi era utilizzata per sedare la febbre e curare alcune malattie da raffreddamento. In America del Nord i nativi ne consumavano i germogli bolliti e ottenevano una farina dai semi. Infine, molte sono le specie di uccelli che possono ancorare e nascondere nel fitto del canneto i propri nidi, dal tarabuso al basettino. Ma per il momento, per me rimarrà soprattutto il bel muro giallo che mi ha accolto lungo il fossato, qualche giorno fa, in una giornata di novembre piena di sole.


Phragmites australis


Philaeus chrysops


I ragni ci accompagnano da sempre. Non c'è virtualmente una sola casa che non ne abbia ospitato almeno uno, eppure raramente la loro presenza viene apprezzata appieno. È un peccato, perché sono eccezionali predatori di un'infinità di piccoli invertebrati nocivi. E la varietà di tecniche di caccia evolute in centinaia di milioni di anni da questi aracnidi è veramente incredibile. Alcuni ragni, ad esempio, non tessono ragnatela ma cacciano all'agguato e inseguendo direttamente le prede, che poi catturano balzando loro addosso con salti prodigiosi. Si tratta dei salticidi, che si possono incontrare sui muri delle case nella bella stagione, come questo bell'esemplare di Philaeus chrysops, che con gli enormi occhi stava cacciando mosche sul terrazzo di casa mia. Alcuni ragni invece realizzano tele di grandi dimensioni, regolari, tese tra le piante e le rocce a intercettare ogni insetto che vi voli in mezzo. Il ragno, come in questo caso una femmina di Argiope bruennichi, si precipita sulla preda e la avvolge con fili di seta resistenti, avviluppandola strettamente prima di mettere in azione i cheliceri con cui inietterà il veleno e ne suggerà poi i liquidi vitali. 


Argiope bruennichi


Non sempre, poi, le tele sono regolari e ben visibili. Molti ragni tessono tele che somigliano superficialmente a un ammasso di fili poco coordinato, ma ovviamente non è che un'impressione: si tratta infatti di trappole letali per numerosi animali, non solo insetti ma anche, a volte, piccoli vertebrati. È il caso di questa Parasteatoda, che in un angolo dell'ingresso della mia palazzina ha catturato una piccola lucertola muraiola (Podarcis muralis), riuscendo a immobilizzarla e a nutrirsene senza particolari problemi. Se pensate che questi animali sono presenti sulla terra da 300 milioni di anni, capirete che senz'altro meritano più considerazione di quella che di solito riserviamo loro, tra un urlo spaventato e una ciabattata.


Parasteatoda